L’energia tra presente e futuro

Stefano Sylos Labini

 

Premessa

 

Nonostante le grandiose innovazioni che sono state realizzate nell’ultimo secolo – elettricità, elettronica,  telecomunicazioni e informatica – il petrolio, il gas e il carbone continuano a rappresentare le fonti energetiche dominanti attraverso le quali il capitalismo contemporaneo ha potuto dispiegare tutta la sua forza produttiva realizzando  un’espansione quantitativa  mai vista nella storia dell’umanità.

Ma negli ultimi venti anni la comparsa sulla scena globale di economie che per lungo tempo erano rimaste stazionarie e che coinvolgono oltre 2,5 miliardi di persone, ha innescato una profonda trasformazione negli equilibri energetici e ambientali del pianeta. La Cina e l’India da oltre un decennio a questa parte hanno iniziato a conseguire dei tassi di crescita sempre maggiori che sono stati associati ad un aumento nei consumi di energia e ad un impatto ambientale impressionante. E’ ormai evidente che la temperatura sia in continuo aumento, che la concentrazione di anidride carbonica abbia raggiunto livelli mai registrati in passato e che gli effetti dell’attività umana siano nettamente più rapidi dei fenomeni naturali. Ed è fuori di dubbio che la situazione attuale sia in stretta relazione con i consumi di combustibili fossili, che nel futuro sono destinati ad esaurirsi, e, già oggi, sono fonte di gravissimi conflitti militari.

L’esaurimento delle risorse energetiche e l’inquinamento prodotto dall’uomo costituiscono dunque dei vincoli allo sviluppo dell’economia del Pianeta. Per questi motivi sarà inevitabile promuovere un ampio processo di riconversione ecologica del sistema energetico, della produzione  e dei consumi, cioè sarà necessario superare il modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche. Questa è la strada per  promuovere la crescita del reddito e dell’occupazione nel lungo periodo.

 

1. Il sistema energetico attuale

 

Il processo di riconversione ecologica dell’economia non sarà un processo indolore e privo di ostacoli perché la transizione da un sistema basato su grandi impianti a combustibili fossili e a combustibili nucleari verso un sistema decentrato costituito da piccoli impianti in grado di sfruttare le fonti rinnovabili, rappresenterà un cambiamento epocale per il sistema capitalistico. Un cambiamento che sconvolgerà il panorama energetico dominato dai grandi oligopoli che controllano i prezzi e regolano l’offerta di energia.

Le grandi imprese oligopolistiche price leader sanno di poter variare i prezzi quando variano i costi diretti nella piena consapevolezza che i loro concorrenti faranno altrettanto. Così, quando varia il costo dell’energia grezza nei mercati di estrazione, le imprese energetiche tendono a variare i prezzi di vendita ai consumatori finali in modo proporzionale per ampliare, o almeno per conservare, i propri margini di profitto. Di conseguenza, nelle fasi di crescita del costo dell’energia, queste imprese vengono a trovarsi in un conflitto di interessi con gli Stati, perché l’incremento dei prezzi finali di benzina, olio combustibile, elettricità, gas per usi civili e industriali, da un lato spinge in alto il fatturato, i profitti e le quotazioni azionarie delle imprese energetiche; ma dall’altro lato alimenta l’inflazione e penalizza i consumi interni, la competitività delle imprese, la bilancia commerciale e la crescita economica del Paese importatore di energia.

I fenomeni appena descritti si sono manifestati nella fase di crescita del 2003-2007 quando si è verificato un continuo aumento della domanda e dei prezzi del petrolio e del gas, che ha consentito alle imprese energetiche di realizzare eccezionali incrementi del fatturato, dei profitti e delle quotazioni azionarie, mentre i paesi importatori subivano un peggioramento della bilancia commerciale e un aumento dei prezzi finali dell’energia.

Pertanto la possibilità di conseguire enormi profitti grazie al potere di mercato in un sistema altamente concentrato con una domanda piuttosto rigida, tende a disincentivare gli investimenti delle grandi imprese energetiche private verso l’innovazione e la diversificazione energetica. Le compagnie petrolifere e le imprese elettriche, infatti, hanno una quota di spese in ricerca e sviluppo che generalmente non arriva a toccare l’1% del fatturato, mentre esistono grandi imprese ad alta tecnologia che arrivano ad investire in R&S il 15% del fatturato. Oggi tra gli obiettivi principali delle imprese energetiche vi sono quelli di acquisire ulteriori quote di mercato attraverso operazioni finanziarie, di distribuire dividendi agli azionisti e di incrementare le stock options per il management. Si tratta di una situazione in cui i profitti prendono la strada della finanza e non quella dell’economia reale.

In sintesi, gli enormi profitti delle imprese oligopolistiche non vengono impiegati per finanziare gli investimenti nella trasformazione del sistema energetico e quindi per contrastare l'aumento dei prezzi del petrolio e del gas[1].

Inoltre, nel settore elettrico dei paesi avanzati esiste un eccesso di capacità di generazione elettrica che si è determinata in seguito alla recessione ed alla conseguente caduta dei consumi (in Italia si stima che la capacità produttiva ecceda del 30% la domanda di elettricità). In un tale contesto l’espansione della generazione da fonti rinnovabili che sta avendo luogo grazie alla spinta degli incentivi determina uno spiazzamento degli impianti più vecchi, inefficienti e inquinanti alimentati dai combustibili fossili. Per questo motivo non si può puntare sulla semplice espansione dell’ elettricità da fonti rinnovabili ma bisogna elaborare una programmazione energetica che preveda un piano di dismissione degli impianti più vecchi e un processo di sostituzione con i nuovi impianti. Si tratta di un problema molto delicato in quanto i costi di dismissione dei vecchi impianti sono consistenti e oltretutto si viene a determinare un problema di occupazione che deve essere riconvertita.

Ciò significa che la transizione da un sistema basato sui combustibili fossili verso un sistema alimentato in misura maggiore con le fonti rinnovabili non può essere lasciato solo al gioco degli incentivi e all’azione delle “forze di mercato” ma deve essere guidato dai Governi per evitare che si vengano a creare delle situazioni insostenibili. Allora, bisogna bloccare la costruzione di nuove centrali a combustibili fossili ed occorre ragionare sull’età, sul grado efficienza e sulla vita media degli impianti tradizionali di generazione elettrica. Ciò perché quando gli impianti più vecchi giungeranno al termine del loro ciclo di vita e dovranno essere dimessi, sarà importante essere pronti con delle nuove soluzioni  tecnologiche per avere un’offerta sicura, poco inquinante, inesauribile, a basso costo e con contenuti tempi di ritorno degli investimenti.

La costruzione di un’economia meno dipendente dai combustibili fossili e a più basso impatto ambientale dunque richiederà un massiccio intervento dello Stato poiché le grandi imprese energetiche, chimiche ed automobilistiche hanno uno scarsissimo incentivo ad investire in questa direzione. 

Il Protocollo di Kyoto per ridurre le emissioni di CO2 rappresenta un esempio di intervento pubblico attraverso la regolamentazione. Successivamente, l’Europa  ha  varato la direttiva 20-20-20 sulle energie rinnovabili, il risparmio energetico e le emissioni di anidride carbonica. 

Accanto all’azione normativa, i governi dei più grandi paesi hanno iniziato ad utilizzare anche la leva fiscale e la domanda pubblica innovativa. Negli Stati Uniti l’amministrazione Obama ha stanziato 112 miliardi di dollari nei settori delle energie alternative, dell’efficienza energetica e della modernizzazione della rete di trasmissione dell’elettricità con l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni di petrolio, di abbattere le emissioni di anidride carbonica e di creare sviluppo e occupazione. La Cina ha deciso di puntare sulla green economy per contenere i gravissimi fenomeni di inquinamento che la affliggono, investendo 221 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2010 e dimostrando che l’economia verde è al tempo stesso un’opportunità e una necessità per un paese ad alto tasso di crescita.

E’ pur vero che gli investimenti, sia pubblici che privati, nelle fonti rinnovabili stanno registrando una crescita continua in tutto il mondo: nel 2011 hanno toccato un valore pari a 280 miliardi di dollari: il 17% in più del 2010, il doppio del 2007 e 5 volte la cifra del 2004. Nel settore elettrico, la metà della capacità installata nel 2011 (208 GW) è attribuibile a impianti alimentati con le energie rinnovabili, in particolare fotovoltaico (40%), eolico (30%) e idroelettrico (25%). Dopo il solare e l’eolico, il settore che ha più attratto gli investimenti è stato lo “smart technology” che comprende le reti intelligenti, le tecnologie per l’efficienza e i sistemi di stoccaggio dell’elettricità.

Si tratta di tendenze incoraggianti  che, però, devono essere potenziate ed accelerate se vogliamo ottenere risultati consistenti in tempi rapidi. La dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili rappresenta un problema molto serio per l’Europa perché oggi oltre il 50% del fabbisogno energetico viene coperto con il gas, il petrolio e il carbone e le previsioni indicano che la dipendenza è destinata a crescere da qui al 2030. Una strategia che punti sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica può consentire di ridurre le importazioni di combustibili fossili con vantaggi  non solo sulla bilancia commerciale ma anche sulla sicurezza energetica poiché in tal modo si ridurrebbero i rischi degli approvvigionamenti dall’estero.

 

2.  Il ruolo della domanda pubblica nel processo di  riconversione ecologica

 

La domanda pubblica innovativa può svolgere un ruolo fondamentale nella promozione di un’economia sostenibile. Su questo punto è utile richiamare l’esperienza americana del dopoguerra.

Diversi economisti americani, tra cui Lester Thurow,  hanno sottolineato che la spesa realizzata dal settore militare negli anni ’50 e ’60 sui grandi progetti spaziali e sui sistemi di difesa missilistica, ha contribuito a trainare la crescita dell’economia degli Stati Uniti nel periodo successivo. La spesa federale è stata la principale fonte di finanziamento della ricerca e sviluppo e la principale fonte di domanda di nuove tecnologie – tra cui semiconduttori, microelettronica, macchine a controllo numerico, intelligenza artificiale, nuovi materiali e laser - fornendo un forte impulso alla rivoluzione dell’informatica e delle telecomunicazioni che si è pienamente realizzata durante gli anni ’90 quando è entrato in voga il termine di “new economy”.

Così negli Stati Uniti — il Paese preso come riferimento dai fautori del liberismo — l'intervento pubblico ha avuto la funzione di promuovere la ricerca e di creare una nuova domanda, cioè nuovi mercati, favorendo la crescita di settori e di imprese innovative; una crescita che in assenza di una tale domanda sarebbe stata molto più lenta e difficoltosa. Se non vi è una domanda consistente, infatti, le imprese private trovano scarso interesse a progettare, finanziare e realizzare gli investimenti innovativi, dal momento che i rendimenti degli investimenti non sono abbastanza elevati e i ritorni richiedono tempi troppo lunghi.

Dunque, l'esperienza americana smentisce le tesi di coloro i quali sostengono l'inutilità dell'intervento pubblico nello sviluppo dell'economia, intervento che porterebbe a uno spreco di risorse e ostacolerebbe gli investimenti privati. Non è così, quando le spese sono funzionali al conseguimento di precisi obiettivi — nel caso degli Stati Uniti obiettivi di predominio militare, politico e tecnologico — e avvengono in un'economia di mercato, cioè in un'economia capace di sfruttare da un punto di vista commerciale le opportunità generate dal progresso scientifico e tecnologico.

Il potenziamento della spesa pubblica per la riconversione ecologica dell’economia andrebbe associato a incentivi fiscali e creditizi e ad una nuova legislazione ambientale volta a riformulare standard, vincoli e divieti. In particolare, gli incentivi possono dare un forte impulso alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio che consentirebbe non solo di conseguire importanti risultati in termini di risparmio energetico ma anche di aumentare il valore degli immobili.

Una strategia di questo tipo può incontrare grandi resistenze poiché le grandi imprese energetiche, grazie ai notevoli mezzi finanziari di cui dispongono, sono in grado di esercitare una notevole influenza sugli assetti politici e sulle decisioni dei governi sia nei paesi più arretrati,  sia nei paesi sviluppati e democratici. Al riguardo, l’esempio più eclatante è quello degli Stati Uniti, dove le grandi compagnie petrolifere hanno sostenuto l'ascesa di G.W. Bush. Appena eletto Bush II si è subito schierato contro l'accordo di Kyoto che avrebbe penalizzato il settore energetico e quello dell’automobile. Successivamente, gli attentati dell'11 settembre 2001 hanno spianato la strada verso un intervento militare dapprima in Afghanistan e poi in Iraq, la regione che dopo l'Arabia Saudita possiede le più ampie riserve di petrolio.

Queste furono le mosse del nuovo programma imperiale – il progetto neoconservatore per un “Nuovo secolo americano” – lanciato dall’Amministrazione Bush con l’obiettivo di  restaurare la supremazia globale degli Stati Uniti attraverso l’uso della forza militare. Secondo Arrighi e Silver[2] il piano prevedeva l’insediamento di “governi amici” in Iraq e in Iran, il consolidamento della presenza strategica in Asia centrale e il controllo dei flussi petroliferi globali dai quali dipendono i principali concorrenti degli Stati Uniti: Europa, Cina, India e Giappone.

Dunque, la storia recente ci ha fatto vedere come alcune componenti del settore privato abbiano influenzato  le decisioni del governo americano in merito alla politica estera, alle spese militari, alla politica energetica e industriale. Per assecondare gli interessi delle grandi compagnie petrolifere e del complesso militare-industriale, l’Amministrazione Bush ha esercitato un fortissimo condizionamento dell’opinione pubblica attraverso i mezzi di informazione. Le campagne mediatiche sono state martellanti: in sostituzione del comunismo ormai tramontato, la lotta al terrorismo è diventata  il mezzo per creare consenso interno e internazionale.

Non c’è alcun dubbio sul fatto che la politica imperialistica volta a riaffermare il dominio globale degli Stati Uniti attraverso il controllo delle risorse petrolifere si sia rivelata una scelta disastrosa.

 

Conclusioni

 

Per cambiare il modello di sviluppo serve dunque una forte volontà politica e devono essere attivati enormi investimenti pubblici, i quali possono mettere in moto anche gli investimenti delle imprese private generando un meccanismo in grado di autoalimentarsi come abbiamo visto nel caso dell’esperienza americana delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.



[1] In Italia l’ENI ed ENEL, due aziende price leader di cui lo Stato è ancora azionista di maggioranza relativa, potrebbero abbassare i prezzi dell’elettricità, del gas, della benzina e dell’olio combustibile alle famiglie a basso reddito e alle piccole imprese ed aumentare le spese in ricerca e gli investimenti nelle nuove tecnologie sul territorio nazionale.

 

[2] Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Cap 4, con Beverly J. Silver, Manifestolibri, a cura di G. Cesarale e M. Pianta, 2010.